Dario Guastini

Maestro nelle classi speciali Lacio Drom di Prato dal 1968 al 1981  

Intervista effettuata il 23 febbraio 2021 a cura di Eva Rizzin

Quando è stata la prima volta che si è avvicinato al mondo di rom e sinti a Prato?

Nell’ottobre del 1968, ma l’anno prima ho fatto il dopo scuola alla Lacio Drom di Pistoia [le “Lacio Drom” erano classi differenziali presenti nelle scuole pubbliche e rivolte agli “alunni nomadi”]. Le Lacio Drom in Toscana sono state attivate a Pistoia e Prato. Firenze non le ha mai avute e non ha mai attivato scuole di nessun tipo per i rom e per i sinti.

Perché non sono state attivate Scuole Lacio Drom a Firenze?

Nessuno aveva fatto richiesta al provveditorato, non si attivò nessuno, mentre a Pistoia e Prato nacquero per iniziativa di due sacerdoti. In genere, l’attivazione delle Lacio Drom era legata alla disponibilità di sacerdoti molto attivi nel sociale, non si dedicavano solo sinti o rom ma anche persone comuni, operavano nelle carceri seguendo situazioni critiche di varia natura e varia umanità. 

Le Lacio Drom nascono prima a Pistoia e poi a Prato?

Sono nate insieme. Io sono arrivato a Prato con un anno di ritardo, mi interpellarono durante il periodo natalizio, nel 1967. In precedenza, nel ’67 e ’68, feci cinque mesi di servizio al doposcuola di Pistoia; la scuola era in una vecchia legnaia di un convento di suore che era stata svuotata e in qualche modo sistemata come aula. Avevamo anche la mensa. Questo è quanto.

Da chi era frequentata la Lacio Drom di Pistoia?

Dai sinti istriani, con cognomi Stepich e Levacovich in predominanza, poi c’era qualche sinto veneto. Con questo gruppo si lavorava abbastanza bene, mandavano a scuola i bambini, perché erano convinti che la scuola potesse servire, mentre altri gruppi non erano interessati, se il bambino diceva di no la frequenza si arrestava.

A Pistoia quindi lei ci lavora 5 mesi?

Sì da gennaio a maggio 1968. Era l’anno scolastico 1967/1968. Lo stesso anno, in ottobre, andai a Prato. Il primo anno insegnava una maestra, si chiamava Primi di cognome, se non erro.

Quando è nata la Lacio Drom di Prato?

Nel 1967, per volontà di Don Mauro Rabatti che fece il lavoro grosso di convincimento. Prato è sempre stata una piazza molto speciale, era un crocevia delle vie di comunicazione, da nord a sud, da est a ovest. Era un punto di connessione, d’estate erano pochissimi quelli che restavano in città (a Prato), poi quando tornava l’inverno si riavvicinavano, venivano a svernare. C’erano molti emiliani, gruppi veneti e giostrai che venivano da Torino o da Milano, imparentati fra di loro. Di cognome facevano Held, Reinhardt: loro erano diversi dai sinti “nostrani”.

Chi erano i sinti nostrani?

Nella zona di Prato c’erano gli emiliani, i veneti, gli abruzzesi, che si fermavano pochi giorni, al massimo una settimana e i sinti della zona di Massa Carrara presenti nel periodo invernale. C’era un numero piuttosto importante di sinti a Prato. La scuola non poteva accoglierli tutti, sarebbe stato impossibile. Siamo arrivati ad avere due classi, ma il problema fondamentale era quello di trovare insegnanti che avessero voglia di lavorare in una scuola speciale Lacio Drom.

In Toscana, oltre a Pistoia e Prato, c’erano altre Lacio Drom?

C’era anche Lucca, seguita da Don Franco Baroni, che era anche il coordinatore delle Lacio Drom toscane, era molto attivo a livello nazionale e molto conosciuto dai sinti.

A livello nazionale c’erano altre Lacio Drom?

Le prime classi speciali Lacio Drom nacquero nel 1965. Erano presenti in diverse città: Torino, Milano, Bolzano e a Trieste. Erano gestite da Don Cesare, la maestra era Luisa Criselli. Udine aveva una struttura favolosa, invidiabile. La scuola era un edificio molto bello anche se era solo per i sinti. Anche Mantova aveva una classe speciale, poi c’era Verona, Trento e altre che non ricordo. Nel luglio del 1968 feci un corso di specializzazione a Bressanone con l’Università di Padova. Il secondo corso si fece l’anno successivo, lo stesso mese.

In che cosa consisteva questo corso?

Era un corso sugli zingari diretto da Mirella Karpati, c’era anche Don Bruno Nicolini che è stato il fondatore dell’Opera Nomadi. Sono stati loro due a muovere le acque e attivarsi per la scolarizzazione dei sinti.

Chi erano i docenti?

C’era Baratto, un professore dell’Università di Padova, mi pare insegnasse didattica, non ricordo esattamente. C’era Luisa Santelli che insegnava psicologia e Flores D’arcais che era rettore della facoltà di lettere dell’Università di Padova.

Si ricorda la denominazione del corso?

Corso di specializzazione per l’insegnamento nelle scuole speciali Lacio Drom.

È stato utile il corso? Che materie venivano insegnate?

Mirella Karpati e Don Bruno Nicolini insegnavano storia degli zingari. Ci veniva insegnata la psicologia con riferimento alla psicologia del diverso, i docenti dell’Università di Padova non avevano delle conoscenze approfondite sul tema specifico, buona parte del corso diventava conversazione e scambi di esperienze fra gli insegnanti. Si andava sul pratico. Veniva insegnata la didattica, la filosofia.

Cosa ritiene che il corso le abbia lasciato in merito alle comunità sinte e rom?

Innanzitutto, il rispetto della persona umana, il resto erano orpelli aggiuntivi.

Si parlava di genocidio?

In quei tempi no. Si parlava dei percorsi migratori dall’India. Era comunque tutto orientato a presentare le situazioni in modo positivo, questo però determinava delle discussioni perché in realtà la situazione reale del momento non era tutta rosa e fiori come voleva essere rappresentata.

Non se ne sapeva nulla. Non avevo trovato riferimenti al Porrajmos e ai 500.000 polverizzati nei forni crematori. tutte queste cose sono venute dopo, forse grazie al ’68 e a chi in quegli anni ha voluto affrontare storie diverse.

Le comunità ne parlavano?

Oh no! Solo a Pistoia avevo trovato un sinto di Trieste, Alberto credo fosse Held. Suonava il violino e aveva la matricola stampata sul braccio. Il gruppo degli istriani invece erano stati deportati in un campo in Sardegna, poi quando è finita la guerra li hanno portati a Civitavecchia e a Livorno da lì si sono spostati verso Pistoia. Antonio non mi raccontò nulla nel dettaglio mi disse solo che era stato in un campo e ne aveva viste di cotte e di crude.

Qual è il suo primo ricordo della Lacio Drom a Prato?

È un ricordo lungo, ci rimasi per molti anni, dal 1968 al 1981, quando poi chiusero definitivamente le scuole speciali. Nel 1981 sono migrato a Pistoia, nel 1977 mi sono sposato e mia moglie poi nell’anno successivo, mi raggiunse da Torino. Fu così che abbandonai i sinti come scolari.

Che famiglie seguiva?

Erano in predominanza sinti emiliani, alcuni in condizioni veramente precarie, bambini che a gennaio arrivavano a scuola a piedi nudi camminando nel fango. È stato più un discorso di assistenza sociale che non di istruzione, di scuola come si intende di solito. Abbiamo imparato insieme a spazzare l’aula a rimettere in ordine quando andavamo via. Avevo preteso che ci fosse una colazione e un pranzo, siamo sempre riusciti ad averlo fino al 1981. Poi con don Mauro ed un altro gruppo di scout abbiamo iniziato ad organizzarci nella raccolta del vestiario. I primi tre e quattro anni sono stati gli anni più duri.

Dove vivevano le comunità in quel periodo a Prato?

Vivevano in “campine” [con tale termine si indicano roulotte o case mobili] più o meno ben messe. La scuola era situata nelle vicinanze della parrocchia di don Mauro, la zona a nord vicino alla collina. Lì c’era un gruppo che abitava dietro il cimitero; un altro gruppo era ubicato in quello che oggi è viale Gallilei. Si erano ritagliati una piazzola in un campo e si erano sistemati con sette/otto roulotte. Non c’erano né aree attrezzate né campi di sosta. Nel 1972 sono stato in Inghilterra ed ho preso contatti con Thomas Acton e Donald Kenrick che lavoravano all’università. Raccolsi documentazione sui campi sosta. In quegli anni si favoleggiava sul campo sosta di Laval (nella zona verso la Normandia) che sembrava potesse essere una soluzione perfetta, ma poi non è risultò così. Laval sembrava il non plus ultra del “campeggio”, si parlava di “campeggio” per dare una patina di accettabilità a tutta la storia.

I sinti potevano muoversi liberamente in quel periodo?

Liberamente finché si muovevano, ma quando si fermavano venivano invitati in vari modi, più o meno piacevoli, a levarsi di torno.

Da chi venivano invitati?

Dai vigili e dalla Polizia. 

Spiacevoli in che senso?

Arrivavano decisi, non stavano lì a raccontare o a farsela raccontare, dovevano andar via e quindi dovevano spostarsi e basta. 

Nel ’72 o ’73, non ricordo bene l’anno, a Prato, c’è stato un assessore [Enzo Bettazzi], era un medico che in campagna elettorale aveva inserito fra le sue promesse quella di creare un campo sosta nella zona sud di Prato, in una zona fuori dalla città. C’erano vari elementi positivi che potevano andare bene, ma non venne rieletto proprio perché promise il campo sosta.

A che area politica apparteneva?

Era un socialista, una persona veramente in gamba, e la prima idea di campo a Prato saltò proprio per questo motivo. Nel 1968, andai a visitare un campo sosta a Milano. Ci andai con Don Franco Baroni di Lucca, lui era il cappellano degli “zingari” toscani. in questo campo, che era nato un paio di anni prima, potevano auto-costruirsi una casa o una baracca e il comune di Milano metteva a disposizione il legname. Il problema si pose quando nacquero le prime discussioni fra i diversi nuclei. Dopo un litigio il nucleo doveva lasciare il campo e la baracca. Un altro aspetto che ne impediva l’occupazione era la morte di una persona, se una persona moriva dentro la baracca questa poteva essere più abitata da nessuno. Quindi in pochi anni, a causa di queste credenze e queste superstizioni quel campo sosta sparì. Il comune non la prese bene: non capiva l’esistenza di questi blocchi culturali. Alla fine degli anni Settanta non era rimasto più nulla.

Quindi la necessità di creare un campo nasce per fornire questi servizi?

Sì, anche per creare un briciolo di controllo.

Perché a Prato si iniziò a parlare di campi? Chi aprì la discussione?

Noi. Con la scuola, si era creata una rete di contatti, con gli assistenti sociali, con il personale medico, le vaccinazioni erano obbligatorie per chi frequentava la scuola, il contatto con l’assessore medico era nato proprio all’ufficio di igiene. Andavamo in gruppo a fare le vaccinazioni.

Che rapporti c’erano fra i xoraxane e i sinti italiani?

Guerra completa, Non c’era convivenza anche se la base linguistica era simile, ognuno era in guerra con l’altro.

In che anno verrà creato l’insediamento?

Non lo so, nel 1981 non c’era ancora. C’erano delle zone dove si insediavano, ed erano zone dove erano più o meno sopportati. Alla fine degli anni Sessanta e Settanta a Prato arrivarono, fermandosi sull’argine del Bisenzio vari gruppi: i xoraxane, i serbi, i bosniaci e i montenegrini. La parte interna dell’argine, quella verso il fiume, veniva utilizzata come campo di sosta, piantavano un palo orizzontale nell’argine, mettevano un telo di plastica, scavavano una specie di nicchia sotto nella terra dove dormivano. In seguito, iniziarono a costruire qualche baracca utilizzando quello che trovavano: cartone, plastica, pezzi di legno. Un giorno ci fu un’incursione della polizia, arrivarono alle cinque di mattina in pieno inverno. Buttarono tutto all’aria e ripulirono tutto l’argine. Era un numero consistente di xoraxane, dopo lo sgombero si mossero in gruppi più ristretti e meno visibili.

Che rapporti c’erano fra i xoraxane e i sinti italiani?

Guerra completa, Non c’era convivenza anche se la base linguistica era simile, ognuno era in guerra con l’altro.

A scuola come facevate a farli incontrare?

A scuola non avevamo xoraxane perché non li facevano frequentare.

Chi frequentava le Lacio Drom?

Sinti emiliani, sinti veneti, sinti piemontesi, sinti lombardi, sinti toscani, passava qualche giostraio della zona piemontese e lombarda, erano Held, erano Reinhardt, ora non ricordo i nomi.

Quindi i rom non c’erano nelle scuole?

No, salvo qualche volta gli ungheresi, gli Hudorovich, dei quali non ricordo i cognomi. 

Che approccio adottavate per coinvolgere i bambini?

Chi voleva venire, la scuola era aperta.

Portavano loro i bambini a scuola?

No, non ci illudiamo. Andavamo a prendere i bambini che avevano chiesto di frequentare finché c’era spazio disponibile. Con don Mauro siamo riusciti a comprare una 600 multipla, sono riuscito a viaggiare trasportando14 bambini: se mi avesse fermato la polizia, sarei andato in galera per 20 anni! Appena arrivai a Prato a scuola, mi arrivò la comunicazione della polizia di presentarmi in caserma senza specificarmi il perché, volevano le mie impronte digitali: «perché lavorando con gli zingari chissà cosa avrei potuto combinare!», quindi le mie impronte digitali sono depositate presso la polizia di Prato.

Le famiglie ve li affidavano serenamente?

Sì, c’era uno scambio d’informazioni e poi fra di loro la voce circolava, a scuola potevano stare al caldo, avevano la colazione, c’era il pranzo e ogni tanto capitava che ci mandassero anche la merenda. La scuola era a tempo pieno dalle 8.30 alle 16.30. Solo il primo anno riducemmo l’orario per problemi logistici. Il tempo pieno, ci dava la possibilità di svolgere diverse attività. Gli insegnavamo a non correre continuamente fra i banchi, a saltarci sopra o a dare un cazzotto al compagno: tra gruppi diversi erano botte ogni giorno. Ogni tanto capitava qualche gruppo “tremendino”, di quelli che si potrebbero definire “selvatici”, nel senso che picchiavano e usavano un linguaggio offensivo, ci sono state giornate veramente complicate. 

Quante classi aveva?

Avevo due classi.

Quanti bambini?

Il numero variava continuamente, siamo passati dai 25 ai 28 ai 5/6, questo poteva capitare dalla sera alla mattina, perché si muovevano e si spostavano di continuo, spesso venivano mandati via dalla polizia e dai vigili.

Mi può descrivere la giornata tipo?

La mattina si chiacchierava un pochino, mezz’ora circa, si parlava di quello che era successo la sera prima a casa, se avevano qualche fatto importante da riportare, per esempio se qualcuno era stato male, se erano avvenuti dei litigi, ognuno lo raccontava a modo proprio. Poi, dopo aver chiacchierato si provava a fare qualcosa; il fare dipendeva dalla situazione individuale dei bambini: c’erano bambini di 10 anni che non riuscivano a distinguere le lettere dell’alfabeto. 

Ho avuto un bambino di 10 anni che colorava come uno di due, prendeva le matite con il pugno e andava a stantuffo avanti e indietro e poi si arrabbiava e strappava tutto, perché non era venuto bello come voleva lui o come se lo immaginava potesse farlo. 

Lo stesso bambino, dopo due anni di frequenza, lavorava l’uncinetto, riuscì a farsi un berettino, era contentissimo, aveva imparato a controllare i movimenti fini della mano, scriveva ed aveva imparato a leggere, ci sono voluti due anni. 

Le situazioni erano molto differenziate, ci si pose la questione di come costituire la classe: metterli insieme per età o per quello che sanno fare? C’era quello che non voleva la bambina, la femmina accanto, l’altro che voleva come vicino di banco il compagno appartenente al gruppo con cui c’erano dei rapporti conflittuali. È stato tutto un mondo da scoprire. Ma il mio dovere fu quello di considerarli prima di tutto come persone, ognuno con dei problemi, ma il l’impegno fu quello di trovare una soluzione alle difficoltà.

Che problematiche c'erano in quel periodo?

Sopravvivere, il problema di poter mangiare tutti i giorni, era un periodo complicato, molti sinti scelsero Prato, perché era una città dove tutti lavoravano, era una città ricca che poteva offrire delle opportunità, vista la presenza di numerose fabbriche riuscivano a trovare dei lavoretti da fare. C’era un rom, si chiamava Kaldaras che costruiva violini, aveva un notevole gradimento, venivano a comprare i suoi violini anche persone importanti. I sinti si arrabattavano, non so come facessero a sbarcare il lunario, c’è chi raccoglieva il ferro vecchio e chi andava a “manghel” [chiedere l’elemosina].

Che attività si facevano per i bambini e adolescenti rom e sinti in quel periodo?

Provammo a costituire una squadra di calcio e pensammo fosse un’azione aggregante, ma non durò molto, ci aveva lavorato don Mauro.

Per i bambini c’era la scuola e le attività scolastiche. Si cercava di ridurre al minimo scrittura e lettura che erano le attività più impegnative e che davano meno soddisfazione, con altre attività più o meno ludiche.

Tipo?

Utilizzavamo la carta pesta, costruzioni con il legno, con la creta, si costruivano casette, si giocava per portare al controllo dei movimenti fini della mano, la finalità era di riuscire a scrivere senza problemi e poi a leggere di conseguenza: volevamo arrivare a qualche risultato scolastico. Volevano tutti imparare a fare la firma, non volevano fare la croce, però questo era un problema perché la firma la puoi fare quando impari a scrivere.

L’istituzione di queste classi speciali hanno determinato successi scolastici?

Con qualcuno sì. Quando andava bene, le frequenze più lunghe potevano durare cinque mesi, forse.

Com’erano i rapporti fra bambini sinti e bambini gagi `{`i bambini non rom`}`?

In genere erano tesi.

Qualcuno è riuscito ad ottenere il diploma di quinta elementare?

C’è stato qualcuno, un Reinhardt, oggi pastore evangelico, che è arrivato all’esame di quinta, ma non oltre, questo finché ci sono stato io. Le frequenze erano molto ridotte. C’erano diverse scuole a livello nazionale: Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Lucca. C’erano altre scuole in Abruzzo, a Pescara e Teramo. Nel nord ce n’erano molte.

Com’erano i rapporti fra bambini sinti e bambini gagi `{`i bambini non rom`}`?

In genere erano tesi.

Erano in edifici scolastici separati?

La Lacio Drom era una scuola speciale solo per bambini sinti, “speciale” nel senso che doveva occuparsi di bambini speciali, considerati fuori dalla categoria “essere comune”, la scuola speciale era l’ideale per fare in modo che questi bambini potessero avere la possibilità di usufruire di un aiuto, di sussidi, di comprensione, di accoglienza senza barriere.

Potevamo ricevere materiali vari, per esempio la colazione e il pranzo in quei tempi lì non era previsto per le scuole comuni, così come il tempo pieno che era previsto solo per le scuole materne, essendo scuola speciale potevamo essere inseriti nell’elenco assieme alle materne e poter così usufruire dei pasti a scuola.

 Ho sempre chiesto almeno due docce negli edifici dove siamo andati, negli anni ne abbiamo cambiati diversi. Il primo era una ex scuola materna, era composta da una stanza, un’aula e una stanzetta. Poi siamo stati ospitati al teatro parrocchiale di Coiano, avevamo a disposizione un teatro, utilizzavamo la platea. A metà del secondo anno ci siamo trasferiti a Maliseti in una ex scuola materna, qui sono riuscito a far installare una caldaia per l’acqua calda, non c’era modo di mettere una doccia, quindi si utilizzava l’acqua calda nella vasca da bagno, in qualche modo riuscivamo a lavarci e la gioia del lavarsi era qualcosa d’incredibile. Poi, nella primavera del 1971, siamo passati in un villino in città che era la sede dell’associazione calcio di Prato, con pavimenti in parquet, avevamo l’aula con il caminetto, avevamo un giardinetto sul retro, era oltre il Bisenzio, andando da piazza Mercatale verso la stazione. Nella villetta sono riuscito a farmi piazzare le docce come volevo. Nel 1973 siamo andati in un edificio di fronte alla scuola elementare di Ponte Petrino.

Quanto ci siete rimasti?

Dal 1973 al 1981, quando sono andato via. Questo fu l’edificio che ci ospitò per più tempo.

Le classi dei sinti erano vicine alle classi dei gagi?

Erano due edifici separati, la scuola elementare era a monte di via Firenze, noi invece eravamo a valle, via Firenze ci divideva, però siamo riusciti a fare un bel po’ di attività e di incontri. Anche se erano due edifici separati si cercava di costruire occasioni per lavorare insieme, ovviamente non erano gare di scrittura, di composizione o di letture, ma altre attività ludiche che potessero permettere a tutti di essere alla pari degli altri, senza l’uso di materiali diversi.

Com’erano visti i bambini sinti agli occhi dei gagi?

Prima di incontrarsi l’uno con l’altro c’erano delle tensioni, i primi incontri erano intensi, perché ognuno rimaneva rigido nelle proprie posizioni, poi nel giro di due o tre incontri, la cosa si scioglieva permettendo l’incontro.

Voi avete mai pensato, prima delle chiusure delle scuole speciali, di poter inserire i bambini sinti nelle scuole comuni?

L’abbiamo fatto.

Prima della chiusura delle Lacio Drom?

Sì prima. Il primo inserimento è stato fatto nel 1971.

Quando eravamo a Maliseti, a 500 metri c’era la scuola elementare. Ci fu l’occasione di parlare con gli insegnanti delle scuole comuni, facevamo parte dello stesso circolo.

Negli anni ho cambiato tre circoli, all’inizio ero nel quarto circolo, poi sono passato nel circolo delle scuole speciali, fra l’altro la scuola Lacio Drom, pur essendo speciale non venne inserita insieme alle scuole speciali. L’inserimento avrebbe permesso di avere dei vantaggi in più, dal sostegno economico ai materiali. Con il primo atto di scioglimento delle classi speciali, i bambini furono inseriti nelle classi comuni, o meglio, vennero inseriti nell’edificio della scuola elementare di pertinenza. C’è voluto qualche anno per passare alle classi comuni, perché nelle classi comuni non li volevano, non volevano il bambino che sbavava e sputacchiava, non volevano quello sdraiato sulla sedia a rotelle che magari non parlava, all’inizio ci sono stati problemi grossi di accettazione del diverso. Noi siamo stati fortunati perché, a parte qualche problematica comportamentale, nessuno dei nostri viveva situazioni simili. Le scuole speciali erano veramente terribili, erano un’ammucchiata di disperati. L’abolizione delle speciali è stata la conseguenza della chiusura dei manicomi. 

Da lì siamo passati al quinto circolo.

A proposito di inserimento, prima della chiusura delle Lacio Drom, nel 1971 ci fu l’inserimento di due bambine sinte. La mamma delle bimbe era una sinta lombarda, il nonno era conosciuto in comunità con il nome “Macio” (pesce), mi pare fosse un Rosenfeld, il padre era un gagio di Bologna, era il padre di Ernesto Grandini. Le bimbe si chiamavano Popa e Dinda, mi ricordo il nome gagio di una, si chiamava Gemma Grandini, l’altro, purtroppo, non lo ricordo più. Erano due bamboline, molto intelligenti, per questo motivo non mi sembrava giusto lasciarle in una scuola e classe speciale immerse in una situazione complicata con bambini che non sapevano né leggere né scrivere: avrebbero perso tempo e opportunità. Decisi quindi di parlarne con il direttore e con le insegnanti e proposi di trasferirle direttamente in terza: accettarono senza problemi e vennero spostate. Dall’ottobre del 1972 al marzo del 1973, andò tutto bene, poi arrivò una troupe televisiva da Roma per fare un servizio. La Rai aveva proposto un servizio sulle Lacio Drom di Prato.

Mentre erano da noi [alla Lacio drom] a fare le riprese si fece menzione della frequenza di due bambine sinte nella scuola comune, si recarono quindi alla scuola e intervistarono le insegnanti e i bambini della classe. Quando i genitori dei bambini non sinti lo seppero, scoppiò un finimondo, nessuno dei genitori, prima del servizio sapeva dell’identità sinta delle due bambine, ci fu immediatamente un rifiuto netto, poi piano, piano, nel giro di pochissimi giorni tutto rientrò. 

Come pensa che sia stata l'esperienza delle classi speciali?

In genere positiva se la frequenza dei bambini era costante, lo status di scuola speciale offriva molti vantaggi, dalle forniture scolastiche alla merenda, al pranzo e colazione.

Cosa pensava allora e cosa ne pensa oggi riguardando a quell'esperienza?

Penso ancora oggi quello che pensavo allora, ossia che le speciali, sono state un’opportunità perché forniva maggiori mezzi. Oggi le scuole si muovono su altri binari. Per tre anni, con Renza Sasso, sono stato coordinatore nazionale delle scuole Lacio Drom, ho potuto vedere come funzionavano da Torino a Triste, da Bolzano a Reggio Calabria. Nel 76/77 abbiamo realizzato un metodo di apprendimento per la lettura e per la scrittura che abbiamo poi proposto a tutte le scuole Lacio Drom. A livello nazionale c’erano situazioni favolose come Udine, mentre altre giù in Calabria, veramente da colpo apoplettico.

Che città?

Gioia Tauro, Reggio Calabria

Era una situazione drammatica?

Mamma mia! Trattavano i bambini come pecore nell’ovile o qualcosa di peggio, c’erano degli atteggiamenti molto pesanti, in questo giro di ricognizione in Italia, c’erano persone in gamba, ma anche altri che non ci erano piaciute. Udine, per esempio, aveva una scuola tutta per sé, era una casa intera, avevano 4 classi, avevano creato un laboratorio di cucito con tutte le attrezzature, avevano un laboratorio di falegnameria con un falegname che veniva uno due volte alla settimana a lavorare con i ragazzi. Era una cosa incredibile.

Ci sono state iniziative per includere le comunità sinte e rom anche dopo la chiusura delle classi speciali a Prato?

Gli ultimi due anni abbiamo iniziato ad inserire i bambini più scolarizzati nelle classi comuni, mentre rimanevano nella speciale quelli che erano appena arrivati a scuola e quelli che avevano problemi di comportamento. Poi nel 1981, ho lasciato tutto e sono venuto a Pistoia dove avevo moglie e figlio. Oggi ci sono nuove associazioni rom e sinte e spero proprio che vadano bene. Con l’Opera Nomadi abbiamo sempre sperato vivamente che potessero nascere associazioni di sinti e di rom che potessero portare avanti i loro problemi, non noi a fare da mediatori, perché poi si riesce sempre male, nel senso che non si riesce a cogliere completamente il pensiero dell’altro.