Intervista a don Mauro Rabatti  

Parroco che aprì la prima scuola speciale Lacio Drom a Prato

Intervista effettuata a Prato, il 20 novembre 2020 a cura di Eva Rizzin

Mi chiamo Mauro Rabatti, ho 81 anni, sono sacerdote da 65 anni.

Quando è stata la prima volta che si è avvicinato al mondo dei sinti e dei rom a Prato?

Mi sono avvicinato nel 1966/1967. L’occasione me la dette Don Franco Baroni di Lucca che già da tempo si interessava di tematiche legate ai sinti e ai rom e dei circhi. Venne da me, perché voleva trovare un collaboratore che portasse la comunione ad una donna sinta che viveva in una “campina” [significa roulotte o casa mobile], era nella mia zona, me la fece conoscere ed io iniziai allora ad avere un rapporto con questa famiglia.

Si ricorda il nome della famiglia?

Ho cercato di ricordamelo, è passato tanto tempo più di 50 anni, cercherò di trovarlo.

Che ricordo ha di quell’incontro?

Fu un incontro normalissimo, loro frequentavano molto Lucca che è circa 60 km da Prato, lì c’era già don Franco che aveva aperto una scuola per i sinti, la Lacio Drom [nome dato alle classi differenziali riservate ad “alunni nomadi” e nate alla metà degli anni Sessanta nelle scuole pubbliche], lui conosceva già molto bene la famiglia, io sono entrato, mi hanno accolto, è stato un gesto di normalità, per me era un’avventura che cominciava.

Quindi don Franco aveva avviato una scuola per i sinti e per i rom, una Lacio Drom? Mi sa dire qualcosa su questa esperienza?

Sì una scuola speciale Lacio Drom.

Speciale in che senso? Quali erano le caratteristiche di questa scuola?

Gli insegnanti venivano scelti da noi però erano pagati dalla Stato, erano scuole normalissime soltanto che noi portavamo la nostra esperienza, la nostra condivisione, in più sceglievamo gli insegnanti.

Erano scuole frequentate solo da rom e sinti?

Sì solo per i sinti. La scuola era iniziata a Bolzano, erano stati don Bruno Nicolini e Mirella Karpati ad aprire le prime scuole, poi loro si erano stabiliti a Roma, ma a Roma non avevano aperto scuole, non erano riusciti ad aprire scuole, dopo Bolzano venne Lucca e dopo pochi mesi incominciammo anche noi a Prato a scolarizzare le famiglie sinte.

In che anno?

1966/67

Quanti bambini c’erano?

Una ventina di ragazzi, andavamo noi a recuperarli nelle “campine”, negli accampamenti, erano  sparsi da tutte le parti, non soltanto sinti ma anche rom, e questo non fu facile, mettere insieme sinti e rom intendo. Però trovai collaborazione sia nella polizia statale che comunale.

In che modo collaborava la Polizia?

Io chiedevo alla Polizia di passare nei posti dove c’erano le famiglie, se mandavano i ragazzi a scuola, li lasciavano, altrimenti li mandavano via. Si incominciò così la scolarizzazione. A Roma, al Ministero [Ministero della pubblica istruzione] si trovò un pratese, Guido Bisori, sottosegretario alla Pubblica Istruzione, poi c’era Caiazza, purtroppo non mi ricordo il nome. Entrambi deputati pratesi. Mi rivolsi a loro, in particolare al sottosegretario e gli presentai il progetto delle scuole che lui non conosceva. Gli presentai il progetto delle scuole, eravamo alle prime armi tutti quanti, le scuole erano state appena aperte a Bolzano, poi a Lucca e infine a Prato; quindi, si stava avviando il tutto in quel momento lì. Il sottosegretario accettò che si aprisse questa scuola. Il direttore didattico della zona accettò di collaborare, di conoscerla e di seguirla e proprio in questi giorni, ho avuto, ricordando il passato, l’indirizzo di un’impiegata della Direzione Didattica di Prato che è disponibile a cercare il materiale che in quel tempo è stato prodotto.

Guido Brisori accettò di aprire una scuola speciale a Prato, ci dovemmo trovare i locali, che inizialmente furono in un locale della parrocchia vicina, era un teatro parrocchiale che non usavano, e ce lo mise a disposizione, mentre la refezione ce la passava il patronato scolastico, che ha collaborato sempre, cercando di favorirci al massimo, la scuola si faceva mattina e sera. Anche il Comune di Prato, con l’allora Assessore Rossi, che benché comunista, seppe lavorare con me prete, erano altri tempi ed era molto difficile, comunque il lavoro incominciò. Refezione di giorno, ogni mattina noi andavamo a prendere i ragazzi con i mezzi che avevamo a disposizione e li portavamo a scuola per poi riportali la sera alle “campine”.

Quindi stavano tutto il giorno a scuola i bambini?

Tutto il giorno a scuola, tornavano alle “campine” verso le 16.30.

Quali attività si svolgevano?

Avevamo una maestra, che si chiamava Grazia Biancalani, ho dimenticato molte cose della sua esperienza, praticamente faceva scuola tutto il giorno lei,  però la sera avevamo una seconda insegnante da Poggio a Caiano del Patronato scolastico, dopo due anni si dovette uscire da quell’ambiente e ne dovemmo trovare un altro, questa volta era nei locali della Misercordia, una stanza a Maliseti, periferia ovest di Prato, lì ci rimanemmo ancora due anni, poi ci siamo trasferiti in via Firenze, in quello che era la sede del Prato Calcio.

Quanto sono durate le scuole Lacio Drom?

Fino a quando lo Stato italiano non ha abolito le classi speciali, cioè nel 1976, controlla però la data dell’eliminazioni delle classi speciali.

Quanti campi c’erano? Che comunità erano?

La tua famiglia, i Reinhardt c’erano già, erano in località Chiesanuova, ho del materiale che ti posso mettere a disposizione, presi dal progetto in quel tempo, facevamo anche raccolta di tutti gli articoli di giornale della zona, per cui abbiamo la storia delle famiglie, come la città accoglieva il progetto scuola e come collaborava.

I primi insediamenti pratesi erano spontanei e non istituzionali?

A proposito del campo attrezzato, nel 1970, ’72, ’73 all’incirca, il Comune di Prato mi chiese di documentare i campi attrezzati e mi mandò addirittura in Francia a Plan de Grasse dove c’era un villaggio in muratura di “zingari”, avevano tutti quanti un loro lavoro, ossia la raccolta di certi tipi di fiori per venderli poi a chi faceva profumi, nelle vicinanze di Nizza. Il comune mi mandò li per raccogliere materiale sia fotografico, sia documentazione scritta. 

Ha ancora questo materiale?

No lo diedi al Comune. In Comune di Prato esiste ancora un primo progetto di campo attrezzato per la zona di Prato. C’è il progetto che poi si è interrotto per altri motivi.

Che attività svolgevano i sinti allora?

Spesso non avevano altro che chiedere le elemosina.

Nei rapporti con la società maggioritaria era sempre un rapporto conflittuale o c’era una buon rapporto con i gagi [tale termine indica chi non è rom o sinto]?

La gente non è come ora, ora è diventano il “problema zingari” come elementi da condannare come etichetta già messa, mentre allora la convivenza era comunque difficile ed era soprattutto legata al fatto che allora gli “zingari” dove trovavano un po’ di spazio, loro si sistemavano. La nostra assistente sociale, fece una tesi di statistica molto interessante, pensa che nel 1970 ci fu il censimento nazionale e a Prato furono censiti da noi circa 600 zingari o nomadi.

Come si chiama l’assistente sociale? 

Si chiama Emanuela Cecconi, si laureò in servizi sociali e fece una tesi sui sinti ed è stata con noi in  mezzo ai sinti finché c’è stata la scuola speciale, poi il comune l’assunse come assistente sociale comunale.

Ritorniamo alle Scuole Lacio Drom, quali erano le attività svolte quotidianamente? Che attività venivano fatte per i bambini?

Praticamente un’attività scolastica normale, noi si partiva molto presto per caricare i ragazzi che erano sparsi nella città, avevamo una 600 Multipla dove ci si metteva addirittura 17 ragazzi, quindi si andava alla ricerca di ragazzi, li si caricava a poi li si portava a scuola.. A scuola c’era l’insegnamento scolastico normale, dovevano imparare a leggere e a scrivere, poi c’era un po’ d’attività socializzante fra di loro.

Che attività facevate nel pomeriggio?

Prima c’era il pranzo e poi c’era l’attività, ma sempre nella zona, non si poteva portarli di fuori a fare passeggiate, era estremamente difficile contenere i ragazzi.

Perché i bambini sinti e rom non sono stati messi nelle scuole assieme agli altri bambini gagi?

È facile capirlo, perché è stato lo stesso problema che si è verificato quando sono state eliminate le scuole speciali, il ragazzo sinto arrivava a scuola non in condizioni di normalità, rispetto agli altri bambini: l’igiene personale, il comportamento, la diffidenza reciproca, c’erano evidenti difficoltà, quindi per superare queste difficoltà ecco che la scuola speciale aveva tutti i vantaggi possibili.

C’erano delle iniziative che venivano intraprese per la questione dell’igiene?

Sì a scuola i ragazzi venivano fatti lavare per bene, nella scuola speciale, c’erano dei lavandini.

Queste cose le conosco bene anch’io, perché me le raccontava mia madre, lei ha vissuto l’esperienza delle Lacio Drom a Bolzano.

I tuoi parenti in effetti sono venuti qui a scuola da noi. 

La mia mamma ha frequentato poco, perché diceva che non era un bel clima, non si sentiva accettata.

Purtroppo non avevamo grandi ambienti, avevamo delle zone libere per qualsiasi motivo che noi cercavamo di ripulire, di mettere in ordine ecc., però non era una bellissima scuola. A Lucca, per esempio, la scuola era su due torrette d’ingresso al mercato Boario. Avevano due classi, una di qua e una di là, in un ambiente che poteva essere 3 metri per 3 metri, anche meno.

Secondo lei, questo tipologia, di scuola speciale ha prodotto risultati pedagogici sodisfacenti?

Ma diamine, certo! I ragazzi hanno seguitato a venire e i genitori ce li mandavano a scuola, anche perché inizialmente era un obbligo per rimanere nel posto e per non avere problemi, ma anche perché così i ragazzi avevano la possibilità di mangiare e anche di ripulirsi. 

Se potesse dare un voto a  questa iniziativa che voto darebbe? Che risultati ha prodotto? Alla fine i bambini si sono scolarizzati?

Hanno continuato ad andare a scuola, qui a Prato abbiamo ragazzi che vanno al Liceo e all’Università.

Aspetti negativi ci sono stati in queste scuole?

Aspetti negativi non direi, soltanto che lo Stato non voleva questo tipologia di scuola, perché la scuola speciale è pur sempre un ghetto, quindi avere bambini nelle scuole speciali, significava avere una divisione netta fra società e nomadismo, fra sedentari e nomadi. Lo stato volle toglierle di mezzo così come tolse di mezzo tantissime altre forme di scuola con indirizzi speciali, però per me era l’unico modo di continuare la scolarizzazione del mondo nomade. Avevano la possibilità di andare a scuola, mentre nella scuola normale, dove furono inseriti dopo la fine delle Lacio Drom, finirono peggio e tutti i ragazzi smisero di andare a scuola.

Lei quindi sta dicendo che con la chiusura delle Lacio Drom ci fu l’abbandono scolastico?

Sì, ci fu l’abbandono scolastico, soltanto alcuni riuscirono a continuare, ma per loro era difficile. Uscire dalla “campina” ed entrare in una scuola assieme a dei ragazzi era incredibile, impossibile.

Perché?

Per l’igiene stessa, per il comportamento, per l’educazione che loro avevano, i ragazzi rom o sinti sono abituati ad uscire di casa e non a stare in casa, quante volte anche gli adulti rom venivano da me per dirmi: «Mauro, andiamo fuori», perché il sentire il tetto sopra la testa per loro era una sofferenza, sono veramente persone libere.

Dopo la chiusura delle classi speciali ci sono state iniziative di inclusione per le comunità sinte e rom?

Alcune famiglie hanno continuato a frequentare, perché avevano capito l’importanza dell’istruzione mandando i ragazzi nelle scuole normali, una sola scuola li accoglieva, ma rimaneva fuori da tutto, lontana dalla zona di sosta, per loro davvero è stata l’impossibilità a continuare. Finché c’è stato dietro l’Opera Nomadi, questi giovani, compreso me, che pensavo al trasporto dei ragazzi ecc. ecc. allora è andato avanti, quando noi li abbiamo abbandonati, purtroppo è finito tutto. 

Mi può descrivere le attività che svolgeva?

Curavo il trasporto dei ragazzi, l’assistenza alla famiglia, i rapporti con la famiglia. Facevo l’autista, la ricerca delle “campine” in varie zone della città, dove arrivava una “campina” arrivavo anche io, conoscenza e socializzazione con le famiglie, capire il rapporto che poteva esserci tra le famiglie, perché si spostano sempre a famiglia allargata. 

Adesso com’è la situazione? Che rapporti ha con la comunità?

Dall’Ottanta, forse prima, abbandonai, il motivo, è la prima volta che io ne parlo, per dirti la verità, è una rottura che si è creata fra me e il mio vescovo. Perché quando il Comune di Prato mi mandò a studiare i campi sosta attrezzati, poi mi chiese anche di intermediare con il vescovo di Prato per avere un terreno dove realizzare il campo di sosta e ci sarebbe stato nella periferia sud un terreno, andai dal vescovo gli chiesi udienza, gli proposi il progetto, la facilitazione che avrebbe avuto anche nei confronti dell’opinione pubblica, perché quel campo sarebbe risultato, in qualche modo, un campo regalato dalla diocesi, quindi anche di fronte all’opinione pubblica non era l’iniziativa di una persona che potevo essere io, ma era la Chiesa che collaborava, soltanto che il vescovo non accettò. Anzi addirittura, mentre eravamo a colloquio fra me, lui e l’amministratore diocesano, il vescovo si voltò verso l’amministratore e gli disse :«fermiamoci, perché altrimenti Mauro racconta tutto quanto al  Comune», a quel punto mi alzai, presi e venni via.

Che cosa avrebbe dovuto raccontare al Comune secondo il vescovo?

Il vescovo avrebbe accettato una presenza non di tipo socializzante come io gli avevo chiesto, attraverso l’Opera Nomadi anche, ma avrebbe preferito formare il cappellano dei nomadi, quello che andava a fare istruzione religiosa, non quello che si sarebbe interessato di una vita sociale.

Quindi lei avrebbe dovuto occuparsi solo dell’aspetto religioso ma non della socialità e dell’inclusione delle minoranze rom? E così lei decise di abbandonare?

Sì. Ed io abbandonai tutto. «Se il mondo nomade deve essere un discorso mio personale» gli dissi: «abbiate pazienza, ma io lascio!» e così finì anche lo studio del campo di sosta attrezzato, finì la presenza dell’assistente sociale che veniva pagata da noi e in qualche modo è finito tutto quello che poteva essere la sensibilizzazione nostra nei confronti del mondo nomade, era il 1975/76.

Dal 1976 chi si occupa delle questioni rom?

Nessuno

Vengono lasciati soli?

Oggi com’è la situazione a Prato?

Non esiste il problema, siamo ritornati a cinquant’anni fa.

Cioè?

Il problema è soltanto la sicurezza sociale, gli zingari hanno camminato, perché hanno capito il valore della scuola e sono andati avanti nella scuola, laddove c’era la possibilità e sensibilità allora il discorso è proseguito, dove non c’era, è fallito.

Oggi quanti insediamenti ci sono a Prato?

Uno in viale Marconi, uno a Iolo, poi c’è un altro campo fuori Prato a Montemurlo, che sono attrezzati ed hanno un’assistenza da parte del Comune

Quindi lei ritiene che oggi ci siano le stesse problematiche di cinquanta anni fa?

No. Allora bastava dire zingari ed era tutto negativo, oggi ci sono famiglie zingare che mandano i figli a scuola.

Secondo lei, perché oggi li mandano a scuola e cinquant’anni fa avevano tutta questa resistenza nel mandarli da parte delle famiglie?

Non capivano il valore della scuola è logico. 

Sono migliorate anche le condizioni economiche dei sinti e dei rom? 

Si può dire di sì. Anche perché riescono a fare piccoli lavori, non cìè più soltanto la elemosina, ma fanno vendita, passano a vendere fiori, passano a vendere stoffe, ad esempio.

A Lucca invece cosa accadde?

Morto il prete si chiuse tutto quanto. Anche a Pistoia avevamo aperto un’altra scuola al campo di Volo, stavamo aprendo un’altra scuola a Firenze, la pratica era in corso, ma purtroppo non venne portata avanti, perché abbiamo abbandonato.

A Pistoia chi era il referente?

Una maestra che aveva una buona sensibilità.

Si ricorda il nome?

Non lo ricordo.

C’era una comunità di sinti?

Sì a Campo di Volo c’era un clan di zingari tedeschi, Reinherdt, Kaldaras, queste famiglie qui.

Perché il tentativo a Firenze fallì?

Perché non si trovò nessuno per portare avanti il progetto. A Firenze non iniziò mai. 

Che comunità c’erano a Firenze?

C’erano tantissimi sinti, noi ci eravamo avvicinati alle comunità presenti vicino all’aeroporto di Rifredi, lì c’erano tantissimi zingari con le loro “campine”. È stato attivo fino a pochi mesi fa.

C’erano sinti giostrai?

Si certo, la giostra era la “Calci in culo” si diceva noi giostra a catene.

Quindi non facevano solo l’elemosina? Avevano anche attività economiche?

Sì qualcuno sì, ma non tanti

ER: Anche a Prato?

MR: Sì, magari durante l’inverno che non lavoravano, chiudevano l’attrazione ludica, la smontavano e la rimettevano a posto per ripartire a stagione nuova.

Conosceva qualche famiglia di giostrai?

Sì certo, i Peruzzi, anche i Kaldaras avevano delle giostre come il tiro a segno, la calci in culo. Le grosse attrazioni come gli autoscontri, o il circo come quello degli Orfei era un altro mondo. Non si pensava che gli Orfei o i Togni potessero essere zingari.

Perché non si poteva pensare che loro fossero sinti?

Per il semplice motivo che si sono sempre differenziati loro stessi, si sa perché si sa, ma magari era un discorso più che altro romantico, ma non perché fosse identificativo di un ceppo etnico, lo zingaro ancora non è riuscito ad imporsi culturalmente. 

Secondo lei in quel periodo la società maggioritaria non rom aveva la stessa percezioni dei giostrai rispetto ai sinti che lei mi descriveva, quelli con evidenti difficoltà di inserimento sociale?

Fino ad un certo punto, perché quando la giostra è ferma, la vita di quella famiglia è uguale a quella degli altri sinti

A proposito delle Lacio Drom, vorrei leggerle alcuni passi di un’intervista fatta a mia madre nel 2004, dove racconta la sua esperienza personale nelle classi speciali. Mia madre apparteneva ad una famiglia molto povera e numerosa, erano 14 fratelli, dovevano andare a chiedere l’elemosina per sopravvivere. La sua esperienza non è stata positiva, ma nonostante i pregiudizi e le violazioni subite ha sempre avuto la forza e la consapevolezza di affermare che il riscatto per me, per i miei fratelli e per tutti i sinti potesse e dovesse passare dalla scuola.

Posso leggerle alcuni passi? La cosa più pesante era quella di dover avere una vita scolastica totalmente distante dagli altri alunni, spesso relegati nei sottoscala, con orari differenti dagli altri e con attività che non permettevano mai d’incontrarsi con altri bambini. 

Erano le scuole di don Bruno Nicolini e della Mirella Karpati a Bolzano.

Mia madre mi diceva che in quelle scuole, lei si sentiva profondamente diversa, fu un’esperienza traumatica, le leggo alcuni passi di quella intervista che riassume bene lo stato d’animo:

“A scuola, purtroppo, non eri più un Sinto ma diventavi uno zingaro dal quale era meglio stare alla larga. Mi chiedono tanti perché non sono andata a scuola? Te lo spiego subito. Noi eravamo così diversi agli occhi dei bambini “gagi”, ci vedevano solo in maniera negativa, a scuola ci sentivamo disprezzati, eravamo a disagio, dunque per noi era più semplice prendere la via di casa dove potevamo trovare il nostro calore famigliare. […] Spesso le maestre pensavano che fossimo bambini con problemi mentali, solo perché magari avevamo una cultura diversa e parlavamo una lingua sconosciuta, il loro scopo fondamentale era quello di trasformare noi, bambini selvaggi”.

Nonostante queste difficoltà però ha comunque creduto nella scuola. Io concordo con lei don Mauro, quando dice che probabilmente molti sinti e rom non hanno frequentato la scuola per le difficili condizioni di disagio sociale in cui vivevano, senza elemosina non sarebbero sopravvissuti. Forse c’è anche un altro aspetto che bisogna prendere in considerazione.  Forse in quelle scuole i bambini sinti si sono sentiti esclusi, non accettati? Forse per questo motivo molti sinti e rom hanno abbandonato? Lei mi ha detto che molti hanno proseguito, io so di tantissimi rom e sinti che sono rimasti analfabeti dopo quelle esperienze. Lei non crede don Mauro?

Purtroppo sì, ma non perché c’era la scritta : “aula riservata gli zingari”, la scritta in qualche modo giustificava l’allontanarsi dalla scuola, perché mancava tutto quello che poteva essere un rapporto anche di maturazione familiare, perché uno zingaro se ha la possibilità di avere una fonte sicura di lavoro, di guadagno, non si pone tanti problemi, lo zingaro è un nomade che raccoglie, siamo ancora allo stadio della raccolta non a quello del lavoro. 

Mi dice qualcosa sull’opera condotta da Don Dino Torreggiani? Aveva avviato tre istituti di raccolta di rom e sinti in Italia, lei si ricorda?

Torreggiani era, in un certo senso, come me, curava di più l’aspetto religioso, però aveva le scuole Lacio Drom anche lui.

Perché Don Torreggiani creò questi istituti? Lei si  ricorda che erano stati aperti anche due collegi? Uno a Badia Polesine e uno a Treviso?

No non ricordo.